Mercoledì, 06 Luglio 2016

La Vucciria


Volendo scrivere sul mercato della Vucciria di Palermo, come non iniziare col famoso incipit delle favole? E allora: c'era una volta, nella città di Palermo, ai tempi della Palermo angioina, un mercato nel quale si macellava e si vendeva la carne. Dalla parola con la quale nella lingua francese si indica il luogo in cui si macella la carne (boucherie) derivò dapprima Bocceria e quindi Vucciria.
Il cuore di quel mercato si trovava in quella che divenne poi piazza Caracciolo, nome del marchese che fu viceré di Sicilia dal 1781 al 1786. Piazza Caracciolo era anche uno dei luoghi dove, nel sedicesimo secolo, si svolgevano gli autodafé (letteralmente “atti di fede”), le cerimonie pubbliche nel corso delle quali venivano eseguite le condanne a morte decretate dal Tribunale dell'Inquisizione (l'esecuzione era affidata al braccio secolare, vale a dire al re, non potendo l'Inquisizione provvedere direttamente).
Sul lato est di piazza Caracciolo ha inizio la via Argenteria. Percorrendola, dopo pochi metri si arriva in piazza Garraffello, al centro della quale si trova una fontana risalente al 1591 (il nome di questa piccola piazza deriva da gharraf, parola araba che vuol dire “abbondante d'acqua”).
In piazza Garraffello si trova il palazzo dove nacque e visse il padre del cardinale Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV (il re Sole) nonché, secondo alcuni, anche suo padre (si racconta infatti che il re Sole fu il frutto dell'amore tra Mazzarino e Anna d'Austria, moglie del re Luigi XIII).
Tutte le volte che penso alla Vucciria mi vengono davanti agli occhi, come in un flashback, le immagini della Vucciria della mia infanzia, quando in quelle stradine, sfavillanti di luci, di colori, inondate di profumi, risuonavano le famose abbanniate, le grida con le quali i venditori reclamizzavano la loro merce, nel gran via vai di persone che animavano il mercato.
E furono proprio quelle grida che fecero sì che i palermitani utilizzassero il termine vucciria per indicare una gran confusione. Oggi, che della Vucciria di un tempo non è rimasto nulla, per rivedere quel mondo perduto faccio ricorso ad un manifesto ricavato dal famoso quadro che Renato Guttuso dipinse nel 1974.
Per i vecchi palermitani il nome Vucciria non era però soltanto il nome di un mercato. Quel nome indicava anche qualcos'altro.
Per indicare qualcosa che si riteneva non potesse mai accadere i palermitani usavano infatti l'espressione quannu s'asciucanu i balati ‘ra Vucciria, intendendo con ciò che pensare che potesse verificarsi un fatto impossibile era come pensare che un giorno le lastre di marmo (balati, dall'arabo balat) della Vucciria, cariche di pesce e perennemente bagnate dal ghiaccio tritato, avrebbero mai potuto essere asciutte.
Oggi, nella desolazione che caratterizza la zona della Vucciria, non rimane altro che dire: S’asciucaru ‘i balati ‘ra Vucciria. L'impensabile è accaduto. E però, quando penso alla Vucciria, provo qualcosa che va oltre la nostalgia dei tempi andati, degli anni della mia infanzia.
Quello che provo all’inizio è un misto di rabbia e indignazione, sentimento che però poi si trasforma, diventando dapprima un enorme desiderio (quello che si prova per qualcosa che si sa di non poter avere e che, proprio per questa consapevolezza, aumenta indefinitamente) e quindi un'infinita tristezza, una cupa malinconia.
Mi vengono allora in mente le parole di una struggente canzone di Francesco Guccini, “Il pensionato”, nella quale l'autore ricorda di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso.
Si potrebbe dire, in parte a ragione, che non è che la Palermo della fine degli anni cinquanta (quelli della mia infanzia) fosse proprio una città dove tutto andava bene, un luogo nel quale si viveva come nel migliore dei mondi possibili.
È però vero che quegli anni hanno segnato un punto di svolta, un vero spartiacque. Da allora Palermo è cambiata, e certamente non in meglio.
Trovo che quella di oggi sia una città di gran lunga più povera, anche se quasi tutti dispongono di iPad, iPhone e altri simboli della moderna tecnologia.
Franco Torre

P.S.:
Quando percorro Corso Vittorio Emanuele II scendendo verso il mare (tra Porta Nuova e Porta Felice c'è un dislivello di una ventina di metri) e, superato l’incrocio con via Roma, mi avvicino a quello con via Pannieri (nome che richiama l'antico venditore di stoffe, il panniere), mi viene sempre in mente una filastrocca che canticchiava mio papà (tenendo in mano uno spicchio di mandarino rovesciato): che beddu stu cappidduzzu/che beddu e sapuritu/ quannu mi l’aiu a mettiri/ quannu mi fazzu zitu/ scinnu pi lu cassaru/ stoccu pi li pannieri/ e tutti chi mi ricinu/ bongiornu cavaleri.

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