Mercoledì, 25 Maggio 2016

Alcune osservazioni ad uno "zibaldone palermitano"

 

Poiché da qualche tempo è in vendita presso le librerie cittadine un testo che raccoglie curiosità storiche a cura di un autore noto per i suoi trascorsi di bibliotecario, mi corre l’obbligo di segnalare alcune imprecisioni che riguardano due Geni, quello di Palazzo di città  e quello di piazzetta Garraffo. Le notizie sono state  prese dallo stesso registro di conti (raziocinio) compilato dal Maestro notaro dei Giurati Francesco Farfaglia, che si conserva presso l’Archivio storico del Comune (Carte varie n. 12) e da me utilizzato alcuni anni fa (PER n. 5/2003, p.28), ma con esiti diversi.  
Osservazioni:
Datazione -  Innanzitutto l’autore erroneamente data il registro - indicato in inventario con un generico XV sec. - a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del ‘400, mentre da fonti certe bibliografiche ed archivistiche si ricava che esso fu compilato negli anni ’80 di quel secolo. Di ciò la direzione dell’Archivio, condividendo, ha già preso nota.
Genio del Palazzo comunale -  Inoltre un inspiegabile  errore di lettura - come possono confermare i funzionari dell’Archivio - lo induce a ritenere che nel Palazzo di città fosse esistito oltre a ‘Palermo lu Pichulu’, oggi ancora visibile, anche un ‘Gran Palermo’, di cui però ammette che non si  è mai trovata notizia.
Genio del Garraffo - Ancora, il predetto autore in merito al Genio-Palermo della Vucciria scolpito da Pietro de Bonitate propone solo delle “congetture” poco, o per nulla, condivisibili, poiché  ritiene - a seguito di una lettura incerta - che nella bocca della statua (“a la bucca ? di Palermo”) siano stati successivamente inseriti due cannola di ferro con sopra un sifone (“e lu xifu (sifone-rubinetto) supra”, p. 9) e quindi sul volto dell’incolpevole Saturno. E il De Bonitate unitamente alla colta committenza del tempo avrebbero permesso un sì colossale sfregio?
Oltre la valenza artistica della scultura vanno infatti considerati i significati estetici (iconologia) del monumento - che comprendeva il vas aureus posto ai piedi del Genio, non a caso assiso su Monte Pellegrino, il ‘sacro monte’ dei Palermitani (…“cunzatu supra la muntagna”, in raziocinio c. 19v., locuzione che richiama il mito di Crono/Saturno, v. G. La Monica, Sicilia misterica, ma anche il culto già fiorente per S. Rosalia, v. G. Mazzola, G. Ceravolo, Santa Rosalia, Palermo 2015) con il motto Panormus vas aureus suos devorat … (Fazello, Di Giovanni gentiluomo) -  e la sacralità politica della eterogenea ‘figura’, che identificandosi con la civitas ne assumeva la figurazione antropomorfa esibendone anche il nome.  Immagine che peraltro i Giurati richiedevano di  utilizzare nel proprio stemma e Ferdinando il Cattolico nel 1489, connivente l’Inquisizione, concedeva, ammettendo così il nume pagano nel Pantheon della cristianità (v. Ignazio De Vio in G. La Monica, cit. e G. Isgrò, Feste Barocche, Palermo 1981). Il Nostro invece declassa l’opera del De Bonitate ad una semplice, oltre che mostruosa, macchina d’acqua della quale peraltro non esiste memoria.  
In realtà i predetti cannola e sifone sarebbero stati collocati, secondo le buone regole dell’arte idraulica, nella parte terminale del condotto (busca) che alimentava la sottostante fontana, come peraltro i successivi interventi sul manufatto (M. Vesco, Il Quartiere della Loggia, in La Vucciria, a cura di R. Prescia, p.18,) dimostrano e il gentiluomo V. Di Giovanni e il Villabianca (Fontanagrafia) con le loro descrizioni documentano.   
E ancora, premesso che l’autore ignora l’analisi stilistica della storica dell’arte M.C. Gulisano (PER-Salvare Palermo n. 5/2003, p. 31) nella successiva p. 10 scrive:
Si può congetturare (!) che la sopraindicata figura di Palermo di mastro Pietro Bonitate potrebbe essere stata spostata (da dove e perché?) all’esterno delle mura, fuori la marina, se consideriamo l’altro consistente pagamento, in pari data, di tre onze e 15 tarì, a mastro Cristoforo di Como : per lu muru undi è Palermo lu Grandi a la fontana di fora” (v. infra punto 4). In questo caso la scultura Palermo-Genio sarebbe stata collocata in uno spazio  più congeniale”.   
Ipotesi molto fragile: 1) Di per sé il pagamento anche se supposto consistente non basta a giustificare lo spostamento della scultura, che peraltro sarebbe stato effettuato senza l’assistenza dello scultore. Infatti ritengo che staccare una statua da una parete dove è già collocata e riposizionarla altrove non è una operazione che non possa comportare danni al manufatto specialmente se al suo interno contiene, come assurdamente ipotizzato, apparati idraulici per alimentare sifone e cannola.
2) E poi perché mai il Comune volendo fare un’altra fontana con il Genio avrebbe scelto un rischioso trasloco anziché commissionare una nuova scultura?
3) Inoltre l’autore non indica il precedente spazio meno “congeniale”. Se fosse stato, come era ed è, la piazzetta Garraffo, allora egli  ignora totalmente la storia di quel planum quale sagrato di S. Eulalia, dei suoi arredi marmorei, fra i quali un Genio di grande mole di indubbia fattura rinascimentale (come da fonti sopra citate e S. Di Matteo, Historie siciliane, Palermo 1987, p. 67) e dei suoi simbolismi, oltre che di quel punto d’acqua (garraffo) già presente nel ‘300 in ruga Catalanorum, dinanzi la chiesa che allora ospitava la prima loggia di quella nazione (La Vucciria, cit. pp. 11-12) .
4) E ancora circa la locuzione ‘di fora’ va notato che il Farfaglia con essa nel suo raziocinio indicava genericamente tutti i lavori che si effettuavano oltre le mura urbiche (marammi di fora c. 30) e quindi in questo caso fuori Porta Patitelli che dal Cassaro conduceva alla marina “ai piedi della città alta” (H. Bresc; F. D’Angelo). Pertanto il pagamento a Cristoforo da Como per  “lu muro undi è Palermo lu Grandi a la fontana di fora” (sic!) non può che riferirsi alla sistemazione a piazzetta Garraffo del Genio del De Bonitate, l’unica immagine di quel dio posta alla marina tramandata dalle fonti sia bibliografiche  che archivistiche.      
Fra l’altro proprio in quegli anni Ottanta del ‘400 per volere del sovrano si potenziava il sistema fortificato della città, anche con interventi esterni (A. Gaeta, “A tutela et defensa di quisto regno”, Palermo 2010, passim) e dei quali è traccia anche nel registro de quo.

Pietro Gulotta

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