Il Museo internazionale delle marionette di Palermo è uno dei luoghi che meglio esprimono alcuni dei tratti più tipici del carattere dei palermitani, e dei siciliani in genere.
Si trova in piazzetta Antonio Pasqualino, ex piazza Niscemi, proprio a due passi da Palazzo Chiaromonte, conosciuto anche come Steri.
Il Museo, come la piazza nella quale si trova, è intitolato ad Antonio Pasqualino, medico palermitano, noto per essere stato un valoroso antropologo e studioso di usi, costumi e tradizioni popolari e, soprattutto, uno dei massimi studiosi del teatro delle marionette, da cui è nata l’opera dei pupi (dal latino pupus, bambino).
Com’è noto, i protagonisti dell’opera dei pupi sono Carlo Magno e i suoi paladini, i dodici cavalieri che il re dei Franchi aveva scelto come sua guardia speciale.
Nel 1965 Antonio Pasqualino fondò l’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari e, dieci anni dopo, diede vita al Museo internazionale delle marionette.
L’amore che Antonio Pasqualino nutrì per questa forma di autentica cultura popolare fu talmente alto che Umberto Eco lo definì “l’uomo dei pupi”.
Nel 2001 l’Unesco ha riconosciuto l’opera dei pupi quale capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità.
Questo riconoscimento non è stato però indirizzato tanto ai pupi, quanto alla memoria di un’antica tradizione popolare che ancora oggi viene mantenuta viva dalle ultime famiglie di opranti rimaste in Sicilia. Su tutte, a Palermo, quella di Mimmo Cuticchio.
Dopo aver raggiunto il suo punto di massima diffusione a metà Ottocento, l'opera dei pupi - una forma d'arte che costituiva, per il popolo, quello che l'opera lirica costituiva per le persone appartenenti alle classi benestanti - ha vissuto una lenta e continua perdita di popolarità, fino quasi a scomparire del tutto, nel corso del Novecento, prima con l’avvento del cinema e poi con quello della televisione.
Il successo di questa forma di cultura popolare era fortemente legato al fatto che i pupi rispondevano alle attese dei ceti popolari, in particolare al loro bisogno di riscatto dalla condizione di subalternità nella quale vivevano da sempre.
Il popolo vedeva nelle gesta dei suoi eroi Orlando e Rinaldo - quest’ultimo era un vero beniamino del pubblico - l’affermazione di una giustizia giusta, che finalmente poneva fine alle ingiustizie che tutti i giorni sperimentava nella vita reale.
Era talmente tanta l’immedesimazione del pubblico con i personaggi dell’opera dei pupi che in tanti casi gli spettatori arrivavano a lanciare oggetti contro i cattivi, tra i quali spiccava Gano di Maganza, traditore per antonomasia.
La triste fama di questo personaggio derivava dal fatto che, pur essendo un paladino di Carlo Magno, Gano suggerì come attaccare a sorpresa i Franchi, mentre questi facevano ritorno in patria attraverso il passo di Roncisvalle, cittadina del nord della Spagna, sul versante meridionale dei Pirenei.
Fu così che, nell'anno 778, morì Orlando, il margravio Hruodlandus Roland di Bretagna, le cui gesta diedero vita alla leggenda della Chanson de Roland.
Secondo la leggenda, l’imboscata di Roncisvalle fu opera dei Saraceni; in realtà, ad assalire la retroguardia dei Franchi furono i Baschi, che in parte erano cristiani, come Carlo Magno.
L'immedesimazione del popolo con i personaggi dell'opera dei pupi era così forte che quando, il 27 maggio 1860, Garibaldi entrò a Palermo e sul palazzo della città fu issata la bandiera italiana, i palermitani misero a Orlando la fascia tricolore.
La forte identificazione del popolo con i personaggi dell’opera dei pupi trova conferma nel fatto che, per indicare le persone delle quali non ci si deve fidare, i palermitani coniarono l’espressione cani ‘i manza, dalla pronuncia dialettale di Gano di Maganza.
Credo che le gesta dei paladini di Carlo Magno, in particolare il “tifo” per Orlando e per Rinaldo, possano aver giocato un ruolo non secondario nell’adozione, da parte dei palermitani, di alcuni valori fortemente ambigui, primi tra tutti la considerazione, l’ammirazione, il rispetto, verso chi si fa giustizia da sé, nella convinzione che la giustizia sia qualcosa dipendente dall’autorità di qualcuno, piuttosto che da quella dello Stato.
Franco Torre
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