Di fronte al piano della Cattedrale di Palermo, esattamente all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele II e Via Pietro Novelli, c’è uno dei pochi esemplari ancora in esercizio, testimonianza di un tempo che fu, di quelli che sono un simbolo della Palermo più autentica, più genuina: i chioschi. Si tratta di autentiche oasi cittadine, presso le quali ci si può dissetare con una vasta gamma di bibite, da una spremuta di limoni ad una di arance o ad una birra.
Tra tutte le possibili bibite, quella che preferisco è la semplice “acqua e anice”, la bevanda più antica e caratteristica di Palermo, portata in Sicilia dagli Arabi. Nella casa di un vero palermitano non può mancare una bottiglietta di anice, da bere non solo come dissetante ma anche, a fine pasto, come digestivo.
È sempre vivo nei miei ricordi, assolutamente indimenticabile come possono esserlo solo alcuni ricordi della nostra infanzia, il chiosco che una volta sorgeva nell’angolo nord-orientale di Villa Bonanno. Ci passavo davanti ogni mattina, andando al Convitto Nazionale, la scuola dove ho frequentato le elementari. Lì, in quell'angolo-oasi, mi dissetavo bevendo di gusto un bel bicchiere di acqua e anice.
Ricordo come fosse ieri la bottiglietta dell’anice, con quel beccuccio lungo attraverso il quale l’acquaiolo iniettava nel fondo del bicchiere d’acqua il prezioso zammù (così a Palermo si chiama l’anice, probabilmente perché in origine si utilizzavano i semi del sambuco, diventato poi zambuco e quindi zambù, zammù).
Di fronte al posto dove sorgeva il chiosco della mia infanzia, nell’angolo tra piazza della Vittoria e Corso Vittorio Emanuele II, c’è ancora l’edicola dove compravo le bustine di figurine. La scomparsa dei chioschi dalle sue strade, così come quella di tanti altri suoi luoghi-simbolo, è un segno della perdita d’identità di Palermo, della sua incapacità di resistere alla globalizzazione consumistica, il segno di una città che non ha saputo restare fedele verso se stessa, verso la sua storia. E senza la propria storia, senza la propria identità, non si è niente.
N.B. Ho usato la parola “identità” nel senso positivo di tale termine, come sinonimo di “riconoscibilità”, “distinguibilità”, non nel senso di totem, di cosa senza vita, roba da museo. Ma, soprattutto, senza attribuirle un valore di per sé positivo, da contrapporre alle “identità” altrui, considerate negative.
Identità come bisogno dell'individuo di sentirsi parte di una comunità, come bisogno di appartenenza ad un insieme, come rivendicazione della propria storia (che è individuale e di nessun altro), senza però per questo giudicare negativamente chi non fa parte della propria comunità. Identità, in definitiva, come resistenza all'omologazione, alla massificazione.
È noto che il cibo rappresenta l'elemento più resistente della cultura di una comunità (in Svizzera, per esempio, a proposito del concetto di “identità” come “riconoscibilità”, si può riconoscere in quale parte ci si trovi, se in quella romanda o in quella tedesca, a seconda di come viene preparato il tipico piatto svizzero a base di patate: a separare le due zone è infatti quella che gli svizzeri chiamano “la linea del rösti”, un vero e proprio spartiacque). Sarebbe però triste dover constatare che l'identità di un popolo è limitata alle sue usanze alimentari, ai piatti della sua cucina.
P.S.: spero che il chiosco all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele II e Via Pietro Novelli ci sia ancora e che non debba dire, come troppo spesso mi capita quando parlo dei luoghi della mia Palermo, “c’era”.
Franco Torre
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Buon Lavoro