Si può leggere un intento tra il provocatorio e il risarcitorio, nella proposta di ricostruire Villa Deliella dov’era e improbabilmente com’era, lanciata da due architetti di nuova generazione – non nostalgici di tempi che furono, dunque – ed accolta con inspiegabile entusiasmo da numerosi e intellettuali e professionisti. Nell’appello lanciato da Giulia Argiroffi e Danilo Maniscalco e negli svariati commenti favorevoli, sul riconoscimento del “falso storico” equiparato – impropriamente - ai monumenti rimessi in piedi dal Sovrintendente Guiotto dalle macerie ancora fumanti di bombe, prevale l'intento di «ricucire una ferita aperta nel tessuto della città … dal malaffare e dalla superficialità di chi lo fece abbattere», che in quel dicembre del 1959 come si sa accomuna il duo Lima-Ciancimino al proprietario principe Lanza di Scalea.
Ma l’idea di risarcire la città da una offesa non trova però altro sbocco che il “gesto simbolico” della ricostruzione di un manufatto la cui bellezza ferita diventa «non solo estetica ma anche etica», nell’atto di riempire un “vuoto” neanche tanto sentito, a giudicare dall’inerzia con la quale la città ha reagito all’idea di riconfigurare il brano urbano in chiave moderna con il progetto del «polo urbanistico di ampio respiro» del ticinese architetto Mario Botta, presentato nel 1989.
Ora si tratta, come sostengono con toni enfatici alcuni commentatori, di «riappropriarsi di ciò che è stato strappato da un sistema mafioso che ha condizionato pesantemente la città sino ai nostri giorni», resuscitando con le tavole originali di Ernesto Basile il “compianto edificio” a cui si affida il compito di rappresentare «la rinascita, la speranza, il ritorno allo splendore di un’epoca felicissima» poiché, a quanto pare, «per andare avanti bisogna guardare indietro, bisogna fare pace con il passato, i tempi sono maturi» per questa «operazione meritoria … di grande portata economica … opera benefica per la città», seppure si riconosca che «niente può sostituire nella memoria e nella coscienza villa Deliella», ma «niente se non villa Deliella può colmare il vuoto lasciato alla città».
L’illustrazione del progetto-ricostruzione si svolgerà domani sabato 28 alle 10,30 a Palazzo Forcella de Seta, con gli interventi autorevoli di Cesare Ajroldi, Ettore Sessa, Matteo Scognamiglio, Iano Monaco, oltre i due promotori, ma dubito che possano trovare spazio in quella occasione idee in contrasto con il clima euforico che si è creato.
Già sono venuti fuori pochi pareri contrari motivati, io stessa mi sono astenuta travolta dalla valanga di consensi entusiastici, limitandomi ad esprimere le mie perplessità a chi mi chiedeva la firma e ad approvare le lapidarie definizioni di “falso storico” e “cretinata” o, meglio, di «resa alla incapacità di rinnovamento» stigmatizzata da Giuseppe Ferrarella, e condividere l’auspicio di Renata Prescia di usare la provocazione per «alimentare un dibattito sulla cultura architettonica di una città che sembra univocamente ristagnare nel suo passato».
Le mie perplessità riguardano difatti la persistente assenza di dibattito sulla “idea di città” che perseguono gli amministratori senza rendercene partecipi, che ora mi vedo costretta ad addebitare anche ai giovani architetti che si sono fatti portavoce di una proposta autoreferenziale, che suona più come rivalsa nei confronti di una classe politica passata e presente, piuttosto che come proposta ragionata per la risoluzione della “questione urbanistica” riguardante il nodo irrisolto di piazza Crispi. La città, tra le sue ferite non sanate conta anche il “vuoto” della villa scomparsa, ma in quel contesto pesa anche il “nulla” del Reclusorio delle Croci e conta, in definitiva, l’assetto complessivo del nodo urbano comprendente l’incrocio con il viale Libertà, le due piazze, i cippi, i parcheggi, le palme, l’aspetto che avrà e l’uso che se ne farà una volta dovesse tornare al suo posto la brutta copia di Villa Deliella.
Bisogna domandarsi dunque a che serva una riconfigurazione urbana che, pur volendo riconquistare la bellezza del com’era, proponga una bruttura dell’ora. Ovvero, il simulacro di un manufatto perduto la cui ricostruzione non potrà giovarsi di materiali, maestranze, lavorazioni, saperi, gusto, istanze, tendenze, e pure dell’aura di benjaminiana memoria, appartenenti al passato del Liberty palermitano le cui poche testimonianze salvate dalle ruspe versano per giunta in stato deplorevole, prive come sono di adeguate manutenzione e destinazione d’uso. Bisogna pure chiedersi cosa farne di spazi finti di una villa privata di inizio secolo, come usarli ai giorni nostri, con quali finalità, mentre la bella villa con giardino che i marchesi Pottino sottrassero alle mire mafiose negli anni del sacco, dalla scomparsa della marchesa resta invenduta e nessuna istituzione pubblica o privata si fa avanti per preservarla da degrado e abbandono.
Eppure, mentre la città si dibatte tra inefficienze e disagi e mancanza di idee per il suo avvenire, bisognerebbe evitare che l’unico dibattito acceso su un tema architettonico e poco urbanistico si arenasse su un triste evento del passato riesumato, ma approfittarne per indirizzare le energie che si sono risvegliate verso prospettive più adeguate ai tempi e alle necessità del mondo contemporaneo.
Rosanna Pirajno
Commenti
Come architetti palermitani siamo piuttosto stupiti di una anacronistica operazione di tipo passatista, invece di proporre una azione sì risarcitoria della "ferita del passato", ma che proprio per questo guardi al futuro o quantomeno al presente, tramite lo strumento universalmente utilizzato per le questioni architettoniche e urbanistiche e che qui sembra misconosciuto: IL CONCORSO DI PROGETTAZIONE !
Le ferite del passato a nostro modo di vedere si rimarginano con la risposta positiva della costruzione della storia del presente, lasciando una testimonianza del proprio tempo , non certo promuovendo una brutta copia che non sarà mai identica all'originale proprio come Ernesto Basile, che era un architetto contemporaneo, il cui lavoro per noi oggi è testimonianza del suo tempo.