Dal 3 Luglio scorso Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale fanno ufficialmente parte del Patrimonio UNESCO. Non la città di Palermo, come spesso si dice, né un itinerario o un percorso monumentale, piuttosto un livello o meglio uno strato. Così lo ha definito Maria Andaloro, protagonista sin dal 2008, insieme con chi scrive e con Francesca Anzelmo, suoi allievi e collaboratori, nel lungo e a volte accidentato cammino che ha portato la commissione UNESCO a riconoscere in quello strato un valore eccezionale universale, facente parte del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Potrebbe sembrare ai più consapevoli un obiettivo semplice, quasi scontato, quello di convincere che il fenomeno della Sicilia normanna abbia portata universale. In verità tanto semplice non è stato, e molte sono state le resistenze che hanno sottoposto a dure prove l’episteme di tale consapevolezza, mettendo in discussione valori e significati di un linguaggio culturale e artistico fondato sull’appropriazione e il rimescolamento di altri linguaggi e culture.
Occorre dunque comprendere il fenomeno e isolarne lo strato, per condividerne la consapevolezza. E ancor prima è opportuno ricordare a noi stessi cosa significhi UNESCO, quale sia l’obiettivo della convenzione stilata nel 1972, cosa davvero oggi sia entrato a far parte del patrimonio mondiale. Infine, sulla base della condivisione di tali principi e valori, sarà possibile ammettere i nostri limiti nella valorizzazione e salvaguardia del patrimonio culturale.
Non è l’arte in se stessa che l’UNESCO promuove, valorizza e custodisce, né tantomeno la bellezza, così soggettiva e mutevole. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, nasce nel 1942, nel corso del conflitto mondiale, per promuovere la pace e la cooperazione tra i paesi. L’acronimo dichiara apertamente quali siano gli strumenti per garantire la pace e la cooperazione internazionali. Educazione, scienza e cultura sono infatti i mezzi per garantire il rispetto di valori universali che, attraverso il riconoscimento di un determinato patrimonio, culturale e/o naturale, permettono di costruire la consapevolezza della nostra cultura e identità. La conservazione del patrimonio dunque non è obiettivo primario, ma lo strumento più idoneo ed efficace per individuare e promuovere valori culturali universali, nel riconoscimento delle singole identità e nel rispetto delle diversità. Quel che l’UNESCO intende custodire e promuovere, laddove non sia un paesaggio naturale, è dunque un fenomeno culturale, dai valori universali, che può manifestarsi e materializzarsi in forme varie, prime tra tutte l’arte in quanto linguaggio in grado di esprimere i massimi valori di una determinata società. Eppure un fenomeno culturale non necessariamente si manifesta nell’arte. Per questa ragione Palermo arabo-normanna ha qualcosa in comune con il villaggio operaio di Crespi D’Adda, patrimonio UNESCO dal 1995: entrambi sono la materializzazione monumentale di un fenomeno culturale di eccezionale valore universale, un patrimonio meritevole di essere custodito, valorizzato e tramandato alle generazioni future.
D’altra parte, la giustificazione dell’eccezionale valore universale di Palermo arabo-normanna, già formulata nella documentazione per la candidatura del sito curata da Maria Andaloro nel 2009 e rielaborata con la collaborazione di Francesca Riccio (Ufficio Patrimonio Mondiale Unesco, organo del Segretariato Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), recita testualmente:
“L’insieme degli edifici costituenti il sito di Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale rappresenta un esempio materiale di convivenza, interazione e interscambio tra diverse componenti culturali di provenienza storica e geografica eterogenea.
Tale sincretismo ha generato un originale stile architettonico e artistico, di eccezionale valore universale, in cui sono mirabilmente fusi elementi bizantini, islamici e latini, capace di volta in volta di prodursi in combinazioni uniche, di eccelso valore artistico e straordinariamente unitarie.
Il sincretismo arabo-normanno ebbe un forte impatto nel medioevo, contribuendo significativamente alla formazione di una koinè mediterranea, condizione fondamentale per lo sviluppo della civiltà mediterraneo-europea moderna.”
Per preservare il patrimonio culturale, promuoverlo, diffonderlo e tramandarlo, sono necessarie dunque la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, beni materiali in grado di simboleggiare patrimoni immateriali: scambio di valori umani, sviluppo sostenibile, consapevolezza del proprio passato. Ed è obiettivo dichiarato dell’UNESCO invitare ciascuno stato membro a conoscere il proprio patrimonio per custodire la propria identità culturale e trasmetterne i valori universali alle generazioni future. Per questo nel 1972, trenta anni dopo l’idea di sviluppare la pace attraverso la cooperazione internazionale, nasce la Convenzione UNESCO, l’idea di istituire una lista di beni del patrimonio mondiale che l’umanità avrebbe il dovere di custodire, tramandandone la memoria. L’articolo 4 della convenzione stabilisce che ciascuno stato membro garantisca l’identificazione, protezione, conservazione, valorizzazione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale e naturale.
Il fil rouge di questo mio breve intervento si svolge proprio tra le righe di questo principio, che a ben guardare sottointende l’idea di tempo - passato, presente e futuro - e di patrimonio culturale, inevitabilmente legato alla storia, recente o passata, di una o più civiltà. Conservazione e Valorizzazione di un determinato patrimonio culturale passano inoltre attraverso due condizioni imprescindibili: la consapevolezza di tale patrimonio e il suo riconoscimento da parte dello stato membro e degli altri stati del mondo. Al nostro filo del discorso si allaccia poi l’atavica oscillazione fra tradizione e innovazione, storicismo e antistoricismo, conservazione ed evoluzione della cultura. Allo stesso tempo, si pone l’accento sul problema politico di chi debba decidere cosa preservare e cosa no, cosa è degno di essere patrimonio, cosa meriti di passare alla storia e di rappresentare un pezzo identitario di una determinata cultura e civiltà.
Per dipanare la matassa, vorrei proporre una riflessione sul concetto e sul fenomeno del revival, e vorrei suggerire l’idea che il proposito dell’UNESCO corrisponda in qualche maniera all’essenza stessa del revival. Nel concetto di revival e nei fenomeni di revivalismo infatti è intrinseca la ricerca, nel passato, di un modello esemplare da rivivere nel presente e sul quale costruire il futuro. Nel revivalismo inoltre è implicita l’idea che il miglior mezzo per ‘rivivere’ la storia sia esperire nuovamente l’arte che essa ha prodotto, massima espressione poietica di un dato periodo storico. Esistono però due diversi atteggiamenti possibili nei confronti dei revivals e della storia. Secondo il primo, il pensiero storico produrrebbe un giudizio critico nei confronti del passato, fissandolo nella storia stessa e impedendone quindi la possibilità di riviverlo. Da tale prospettiva, il revival viene interpretato come rifiuto di vivere un presente giudicato negativamente, e come volontà di evadere in un passato sentito e riesperito nel presente. Tale approccio mette in luce i limiti del fenomeno nella sua accezione romantica, contraddistinta da un sentimento di nostalgia nei riguardi del passato (Argan 1974). Un secondo e differente punto di vista, pur ammettendo i limiti dell’ideale romantico di tutti i revivalismi, definibili come nostalgiche utopie retrospettive, interpreta il fenomeno come volontà di rivincita sulla temporalità e sul determinismo storico, tramutando l’utopica illusione in speranza, o meglio nella fiducia in un futuro migliore modellato sul passato. Un passato molte volte idealizzato, o meglio ideologizzato, in funzione politica o nazionalistica, ma capace di conferire linfa vitale per la costruzione dell’avvenire (Assunto 1974).
Da questi diversi atteggiamenti dipendono i giudizi che possono essere attribuiti ad alcuni fenomeni ricorrenti nella storia, associabili alla menzionata oscillazione tra tradizione e innovazione. Per certi aspetti infatti sono stati considerati come revivals quei fenomeni che hanno a che fare con il recupero della tradizione - la rinascenza carolingia, la renovatio imperi, il romanico, il rinascimento, il neoclassicismo. A mio giudizio, quel che davvero differisce tra tali fenomeni e i movimenti di revivals romantici consiste piuttosto nel fatto che i primi recuperano l’antico inteso positivamente come tradizione classica, gettano un ponte tra quest’ultima e il presente, cosiché il giudizio sul passato si manifesta nel presente rivivendo, o meglio continuando a vivere la storia che ebbe inizio nell’‘epoca d’oro’ dell’umanità; il primo revival storicamente dichiarato è invece il Gothic Revival, nato in Inghilterra con una chiara funzione ideologica e politica, volto al recupero della tradizione locale e all’esaltazione della storia e dell’identità nazionali. In sostanza, i revivals del periodo romantico, prima di divenire eclettici esercizi di stile, sono tutti volti al recupero di quella parte della storia che la ‘storia’ aveva trascurato o negato. Non è un caso pertanto che essi si svilupparono principalmente in Inghilterra, Francia e Germania, nell’alveo della dialettica classico/romantico, supportati da grandi teorici quali John Ruskin, Eugène Viollet-le-duc e lo stesso Wolfgang von Goethe, che già nel 1772 aveva scritto Von deutscher Baukunst (Dell'architettura tedesca), in cui viene esaltata l’architettura gotica quale pura forma di espressione della nazione germanica, l’unica nazione, per Goethe, che possa vantare una propria architettura. Se da una parte questo episodio segnò l’avvio di un dibattito sull’origine dell’arte gotica e sulla supremazia culturale tra le nazioni europee, dall’altra costatiamo come l’Italia non abbia partecipato molto a tale dibattito, mentre si svilupparono filoni del revival – il neoromanico e il neorinascimento – volti a magnificare il passato italiano ed esaltare l’identità della nazione da poco formatasi. A ben guardare, ciò avvenne in Italia tramite il revival di altri revivals.
Fa eccezione proprio il Regno di Sicilia, che molto precocemente, già in epoca pre-risorgimentale, partecipò a suo modo non solo al dibattito sul gotico, dagli scritti del Duca di Serradifalco (Cianciolo Cosentino 2006) fino a quelli di Gioacchino Di Marzo (Di Marzo 1858), ma contribuì anche, e in modo originalissimo, alla stagione dei revivals, attraverso la ricerca e il recupero delle tradizioni identitarie della nazione Sicilia, identificabili da una parte nella classicità greca, dall’altra nelle origini normanne del regno di Sicilia. Lo stile dorico-siculo, e quello già definito dal Serradifalco siculo-normanno, infine etichettato come arabo-normanno (Longo 2013), divennero i neo-linguaggi da riesperire per far rivivere le ‘età d’oro’ della civiltà siciliana.
Queste brevi riflessioni sul revival, apparentemente lontane dal tema dell’iscrizione UNESCO, permettono piuttosto di analizzare storicamente alcuni processi essenziali per l’inserimento di un dato fenomeno nella lista del patrimonio mondiale, vale a dire la consapevolezza culturale di quel fenomeno e il suo riconoscimento internazionale.
La consapevolezza, nell’epoca dei revival, si manifesta inequivocabilmente in una serie di episodi che coinvolgono committenti e architetti della prima metà dell’Ottocento, a cominciare dal progetto di adeguamento neogotico dell’ingombrante cupola della Cattedrale di Ferdinando Fuga, portata a compimento entro il 1801 sotto la direzione di Giuseppe Venanzio Marvuglia. Sarà lo stesso Marvuglia, probabilmente spinto dal malcontento di Ferdinando III di Borbone, a realizzare poco dopo il modello ligneo della nuova cupola, che però non fu mai realizzata (Palazzotto 2004). Altro esempio noto è la neogotica torre campanaria progettata da Emmanuele Palazzotto per il Palazzo Arcivescovile (1826-36), improntata sul modello delle torri angolari trecentesche della Cattedrale, ispirate a loro volta alla torre campanaria della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio. A confermare i rapporti dialettici che si istaurarono tra committenti e architetti vale la pena menzionare poi i restauri del Palazzo Reale, o meglio le ‘normannizzazioni’ dei prospetti della Torre Pisana e di quelli sud-occidentali (Palazzotto 2004, Zoric 2014), mentre si inserisce più decisamente nel solco del revival, tra ideologia e eclettismo, l’iniziativa esemplare del Marchese Forcella di trasformare il suo palazzo in un laboratorio sperimentale, nel quale ritornano in vita in parte le matrici classico-sicule, in parte le architetture e l’arte siculo-normanna (Bruno 2004, Bruno 2014).
Il riconoscimento internazionale del patrimonio culturale classico-siculo e normanno-siculo avviene negli stessi anni e per cause non dissimili, quando l’èlite di intellettuali europei, viaggiatori, architetti e disegnatori, compiono il Grand Tour un po’ per erudito gusto dell’esotico, un po’ per ricercare i modelli dell’antichità classica. Molti viaggiatori non possono certo esimersi dal visitare la Sicilia, senza la quale – aveva detto lo stesso Goethe, l’Italia non lascerebbe alcuna immagine di sé. È qui infatti che gli intellettuali romantici individuarono le origini della civiltà classica e gli architetti dell’Ottocento cercarono le origini dell’architettura gotica o, più precisamente, dell’arco ogivale.
Tra consapevolezza del patrimonio e riconoscimento dei suoi valori, nel corso dell’Ottocento si passa precocemente dall’aspetto più romantico e pittoresco della conoscenza ad un approccio positivistico e alla storia degli studi; dalle ‘cartoline’ dal gusto vagamente esotico di Jean-Pierre Houël e Henry Gally Knight al rilievo architettonico di Jakob Ignaz Hittorff e Karl Ludwig Wilhelm Zanth, di Seraurt D’Agincourt e di tanti altri, fino all’inquadramento del fenomeno arabo-normanno nel contesto dell’Italia unita. È infatti un grande esperto della disciplina come Camillo Boito a tentare per primo una definizione dell’arte della Sicilia medievale, ed è sempre lui, nel 1880, a scrivere: ‘niuna arte è più originale niuna più nazionale’ (Boito 1880).
Quest’affermazione, così distante dai sentimenti di idiosincrasia che hanno caratterizzato il XX secolo, pronunciata non da un siciliano, ma da un intellettuale romano, formatosi a Padova e operante a Milano, dimostra pienamente quanto lo spirito nazionalista dell’Italia post-risorgimentale concepisse l’identità della nazione come qualcosa non di unitario ma di intrinsecamente variegato, multisfaccettato, per questo unico e in questo senso identitario.
Sono gli stessi anni in cui la consapevolezza storica, congiunta con i sentimenti nazionalistici risorgimentali e con l’orgoglio della sicilianità, giungeva alle celebrazioni dei Vespri Siciliani, tenutesi nel 1882 davanti alla riscoperta chiesa di San Cataldo. Una chiesa che Giuseppe Patricolo aveva appena liberato dall’edificio neoclassico che la inglobava, realizzato un cinquantennio prima da Alessandro Marvuglia.
Questo contesto fornisce uno spunto di riflessione sulla storia dei restauri in Sicilia e sull’atteggiamento che essi rivelano nei confronti del passato. Giudicare oggi l’operato del Patricolo sarebbe avventato tanto quanto tacciare di spregiudicatezza il Marvuglia stesso, il quale, pur rispettando la memoria del monumento medievale, non ebbe remore nel sacrificarne l’immagine consunta che ne rimaneva.
Piuttosto, una volta sottoposte a decantazione le teorie brandiane, la stagione dei grandi restauri inaugurata dal Patricolo meriterebbe di essere valutata con più lucido e sereno distacco. Pure ammettendone un’inclinazione retrospettiva e nostalgica, il restauro di Patricolo potrebbe configurarsi in effetti come un revivalismo nuovo, che potremmo definire scientifico, capace non tanto di far rivivere la storia, quanto di riportare in vita il monumento, sua concreta e originale materializzazione. Patricolo in tal modo conciliò l’invenzione stilistica leducchiana con le dottrine di Ruskin: il suo fu in effetti per quel tempo un restauro attento e prudente, filologico ante litteram, capace di anticipare le idee del contemporaneo Boito e dello stesso suo allievo Alessandro Beltrami. Eppure non siamo stati capaci finora di comprendere fino in fondo il valore degli eventi del passato, prossimo o remoto che sia; continuiamo pertanto a oscillare tra l’analisi oggettiva del fenomeno (Tomaselli 1994) e il giudizio critico che condannando la nostalgia del passato finisce con il proiettarla nel presente (Maniace 1994). Non sarebbe il caso semmai di valorizzare il fenomeno arabo-normanno nel suo complesso e nella sua capacità di mantenersi perennemente in vita in virtù della sua portata storica? Non è forse il monumento testimonianza autentica del divenire diacronico di un eccezionale fenomeno storico e culturale?
Riprendendo il filo della storia, sopraggiunse infine la Grande Guerra, seguita immediatamente dopo dal periodo fascista e da una nuova fase di nazionalismo italiano, non plus ultra dei revivals di stampo ideologico, per il quale la nazione Italia si uniformò all’immagine unitaria e identitaria della romanitas, individuando l’‘età d’oro’ della storia nazionale nel periodo classico imperiale. Non è casuale che, a partire dai primi anni del Novecento, le discipline storico-artistiche abbiano favorito la tradizione classica dell’Italia e tutto ciò che su di essa fosse improntato - dal romanico al neoclassicismo, passando per il rinascimento - basando i propri criteri di giudizio storico ed estetico sulla maggiore o minore aderenza alla tradizione. Ecco perchè, in uno stato dove l’identità culturale ha valorizzato i caratteri puri della classicità, della romanitas, della cristianità, ciò che è arabo e normanno suona ibrido e alieno, straniero e nordico, e non merita più di poche pagine nei manuali di storia dell’arte.
Ecco perché, dal 1972, il riconoscimento Unesco del fenomeno arabo-normanno, cinquantunesimo sito italiano, giunge solo adesso. Solo oggi gli studiosi rilevano come sia proprio l’ibridismo a generare il rinnovamento e a consentire l’evoluzione delle forme e dei linguaggi (Tronzo 2011). Il sincretismo genetico che ha caratterizzato l’epoca del regno di Ruggero diviene crogiolo dove si sviluppa un’arte nuova, capace di irradiarsi nel bacino mediterraneo (Andaloro 2007, Longo 2014).
Ecco come il sito UNESCO di Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale possa paragonarsi all’ultimo dei revival, che tuttavia agisce questa volta dall’esterno, da una organizzazione internazionale che ancor prima dei cittadini palermitani riconosce i valori e le valenze universali - oggi attuali più che mai - di un’epoca caratterizzata dall’incontro di più culture.
Dal 2011 la procedura è stata affidata alla neo istituita Fondazione Patrimonio Unesco Sicilia, sotto la direzione di Aurelio Angelini. Vi lavorano Francesca Riccio, Maria Andaloro, Ruggero Longo, Maurizio Carta, Barbara Lino, Giovanni Ruggieri, Lidia Scimemi. I nove monumenti - Palazzo Reale con Cappella Palatina, Cattedrale, San Giovanni degli Eremiti, Santa Maria dell’Ammiraglio, San Cataldo, la Zisa, il Ponte dell’Ammiraglio e le cattedrali di Cefalù e Monreale - costituiscono una selezione attenta dei monumenti che possiedono tutti quei caratteri necessari e sufficienti a rappresentare il fenomeno nella sua complessità culturale. Già nella prima documentazione predisposta per la candidatura - redatta nel 2009 da chi scrive con Maria Andaloro e Francesca Anzelmo - tale complessità era stata resa con queste parole: “La committenza normanna favorì forme di appropriazione culturale, divenendo allora ambasciatrice di un linguaggio nuovo, capace di combinare l’elemento bizantino e islamico con quello romanico d’oltralpe […] Più che una sinfonia, le note del sincretismo normanno suonano una polifonia: i toni austeri del gusto bizantino si mescolano a quelli meravigliosi ed incantevoli di quello islamico, dando vita ad uno straordinario patrimonio […] Non una città o un luogo geografico dunque, né soltanto un insieme di monumenti: è stato detto uno strato, una dimensione socio-culturale tipica di un luogo e di un tempo, conservata nella memoria delle pietre, nei mattoni che innervano gli edifici e nelle tessere dei mosaici che li decorano.” (Andaloro-Anzelmo-Longo 2009)
Oggi questi concetti cominciano finalmente a essere di pubblico dominio. Anzi a volte sono ripetuti pedissequamente. Oggi in molti sembrano accorgersi dell’arabo-normanno, ma occorre tenere presente che senza una profonda e adeguata consapevolezza si rimane incapaci di valorizzare davvero il fenomeno.
Ritorniamo allora al concetto di revival. L’Ottocento, la stagione del Patricolo, l’Esposizione Nazionale del 1891-92, la Sala Araba del Museo Nazionale di Antonino Salinas. Sorge la domanda: siamo capaci oggi di valorizzare com’è stato fatto nell’Ottocento? O forse rischiamo ancora una volta di mitizzare il passato? Nel frattempo, si resta divisi tra chi non ha consapevolezza e chi idealizza, mentre una terza categoria, forse con troppa prudenza, taccia di nostalgico chi idealizza, contribuendo di fatto alla sindrome dell’immobilismo siciliano. Certo, la storia e l’arte sono spesso in rapporto idiosincratico e dicotomico, e l’arte in realtà può celare dietro il luccichio degli ori il colore cupo del sangue versato in battaglia. Si parla spesso di una politica di tolleranza, o meglio ancora di un fenomeno di conviventia, laddove probabilmente nella Palermo normanna fu attuata piuttosto una strategia di convenienza, in grado di garantire il controllo di un popolo multietnico e plurilingue da parte di uno sparuto gruppo di scaltri conquistatori. Eppure oggi saremmo in grado di gestire una politica multiculturale e plurilinguistica? Oggi che la Sicilia vanta un primato di accoglienza, oggi che Palermo ospita indiani, tunisini, senegalesi e nigeriani, in maggioranza musulmani, oggi che, come ai tempi di Ibn Hawqal, sorgono moschee non titolate, siamo forse in grado di legiferare in arabo? E soprattutto: siamo xenofili o xenofobi? Siamo in grado di accogliere elementi di altre culture per produrre nuovi linguaggi sincretici? Dove risiede allora il mito? Ecco quale vorrebbe essere l’invito dell’UNESCO: non riportare in vita il passato, ma mantenere in vita la sua memoria.
Oggi, di fatto, ci svegliamo in una città fregiata del riconoscimento UNESCO ma ancora sfregiata dall’incuria e dall’immondizia pervasiva. Occorrerebbe invece un impegno attivo da parte delle istituzioni, affinchè chi è preposto alla gestione del patrimonio possa contare su risorse concrete e valide, volte non solo alla conservazione dei monumenti e al potenziamento dei sistemi di ricezione turistica e fruizione della città, ma anche e soprattutto alla costituzione di un sistema integrato e multimediale per la conoscenza, la fruizione e la valorizzazione dei monumenti normanni di Palermo, Cefalù e Monreale.
Ruggero Longo
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