Ad ovest del Palazzo Reale, esattamente all'angolo tra Piazza Indipendenza e Corso Calatafimi, affissa sul muro della caserma Garibaldi, c'è una targa commemorativa che ricorda Francesco Paolo Di Blasi.
Propugnatore delle idee messe in circolazione dalla Rivoluzione Francese, teorizzatore di una limitazione dei privilegi del clero e della nobiltà siciliani, il giovane avvocato Di Blasi, tipica figura d’intellettuale meridionale, cercò di sviluppare nella sua terra le idee progressiste che lo animavano.
Cercò di svilupparle grazie all'appoggio del Vicerè Domenico Caracciolo, negli anni in cui Caracciolo fu Vicerè della Sicilia (dal 1781 al 1786).
Ma come molto spesso accade a certi intellettuali (specialmente a quelli meridionali, portati più degli altri a non tener conto, nei loro ragionamenti, della realtà fattuale, dei vincoli presenti nel contesto sociale nel quale vivono, non di rado inclini a ragionare per il puro piacere intellettuale di ragionare), Di Blasi non tenne conto del fatto che le rivoluzioni senza una solida base popolare sono illusorie e inevitabilmente destinate al fallimento.
Non solo infatti l’illuminismo non aveva creato in Sicilia nessuna forza capace di contrapporsi al sistema feudale introdotto nell'isola dai Normanni (i baroni siciliani continuavano a godere di un enorme potere e Palermo era la loro città-roccaforte), ma per di più le idee del giovane avvocato palermitano si ispiravano alla Francia, vale a dire ad una nazione fortemente odiata dal popolo siciliano, che conservava ancora nitido il ricordo dei Vespri, la più grande sollevazione popolare mai avvenuta in Sicilia.
Il 20 maggio 1795, dopo essere stato arrestato, processato e torturato, Francesco Paolo Di Blasi, all'età di 42 anni, venne decapitato nel luogo che oggi è Piazza Indipendenza (all’epoca piano di Santa Teresa).
La vicenda, un vero e proprio sbarramento all’intelligenza umana, condotto con spietata ferocia, è raccontata da Leonardo Sciascia nel “Consiglio d’Egitto” dove, con ragione, è scritto che “la storia siciliana è tutta una storia di sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli”.
L’episodio storico di cui l’avvocato Di Blasi avrebbe fatto bene a tener conto aveva avuto luogo a Palermo il lunedì di Pasqua del 1282, sul sagrato della Chiesa dello Spirito Santo, all'ora della funzione del Vespro.
A provocarlo fu un soldato francese che, col pretesto di una perquisizione corporale, mise le mani addosso ad una giovane nobile siciliana, accompagnata dal marito.
In segno di reazione a quell’offesa lo sposo sottrasse la spada al soldato francese e lo uccise, dando così il via alla rivolta.
Al grido di “Mora, mora!” (ricordato nella Divina Commedia, nei famosi versi dell'VIII canto del Paradiso, nei quali Dante indica come “mala segnoria” il regno angioino in Sicilia) i palermitani diedero vita ad una vera e propri caccia ai francesi, che in poco tempo dilagò in tutta l’isola.
E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”
L'insurrezione si concluse, dopo una lunga e dura guerra (la cosiddetta “guerra del Vespro”), nel 1302, con la pace di Caltabellotta (dall'arabo Qal'at-al-Ballut, rocca delle querce), cittadina montana in provincia di Agrigento.
Sperlinga, in provincia di Enna, fu il solo paese siciliano che offrì un rifugio ai francesi, come ricorda la scritta riportata sul cartello stradale posto all'ingresso del paese (quod siculis placuit sola Sperlinga negavit).
Secondo un’antica leggenda, tanto popolare quanto assai poco verosimile, per individuare i francesi che tentavano di camuffarsi fra la popolazione, i siciliani ricorsero ad uno shibboleth (1) : mostrando dei ceci (cìciri in siciliano), chiedevano di pronunziarne il nome, uccidendo quelli che, tradendo la loro nazionalità francese, pronunciavano scisciri.
(1) shibboleth: parola che, per le sue difficoltà di suono, è molto difficile da pronunciare correttamente per chi parla un'altra lingua. Per questo motivo viene scelta per riconoscere chi appartiene ad un'altra comunità.
Franco Torre
Sono nato (nel 1953) a Palermo, nella città antica, quella all'interno delle mura medievali, quella che ancora oggi considero la vera Palermo, quella più autentica.
L'ho lasciata all'età di vent'anni, quando decisi di completare altrove i miei studi universitari (a Padova).
Dopo la laurea in Ingegneria ho vissuto a Milano, quindi a Torino e dal 1989 vivo a Genova, città che trovo particolarmente affascinante, per certi versi misteriosa e nella quale, conoscendone bene la storia e gli usi, ho scoperto tanti elementi che la collegano a Palermo.
Il fatto di aver deciso di lasciare Palermo non mi ha impedito di seguirne, anche da lontano, le vicende e, soprattutto, non ha scalfito i sentimenti che mi legano ai luoghi dove sono nato e cresciuto, al mio "posto delle fragole".
Anzi, proprio come accade con i quadri, guardando le cose da lontano ho potuto vedere e capire meglio i meccanismi che la governano, oggi come ieri, ieri come sempre.
Ogni anno trascorro a Palermo brevi periodi di tempo e gran parte del mio tempo lo dedico alla ricerca dei luoghi, dei sapori, degli odori (su tutti, quelli del pane caldo e del gelsomino) che amo di più e di cui a volte sento tanto la mancanza.
Mi piace passeggiare per le strade della città antica (non sopporto il termine "centro storico"), quelle che percorrevo da bambino, anche se ogni anno che passa noto con dolore, nella generale indifferenza dei palermitani (la cui apatia non riesco a concepire), che i pezzi che mancano alla "mia" Palermo (quella delle elementari al Convitto Nazionale, dei pomeriggi a Villa Orleans, della Vucciria piena di lampadine accese anche in pieno giorno) diventano sempre più numerosi e la cosa mi procura una tristezza indicibile.
Da poco ho smesso di lavorare e così mi sono riappropriato del mio tempo, vale a dire di quella che considero la risorsa più importante a disposizione di un essere umano.
Ho così cominciato a scrivere, coltivando in tal modo una vecchia passione, che risale agli anni della scuola media, quelli del Garibaldi, di Villa Gallidoro.
Ho creato un mio blog, sul quale scrivo su argomenti vari, libero da qualsiasi tipo di condizionamento (scrivo soltanto quando mi va e solo su argomenti che mi interessano).
Occasionalmente scrivo anche sul blog palermitano "Rosalio".
Vivendo da tanti anni nel Nord dell'Italia e avendo viaggiato parecchio anche all'estero, so bene quanto sia grande l'attrazione che Palermo, e la Sicilia in generale, esercitano nella mente di tante persone, il fascino che certi luoghi sono in grado di evocare, anche al solo nominarli.
Quella che, col passare degli anni, mi è apparsa essere la caratteristica più interessante, più affascinante, di Palermo, al di là dei soliti, vuoti, stereotipi (endogeni ed esogeni) che la riguardano, al di là di quella che considero un'insopportabile retorica, è la sua "completezza", la pluralità di culture, la compresenza di mondi diversi, il suo essere una metafora della vita, un luogo in cui il bello e il brutto vi si trovano così intimamente intrecciati (alla rinfusa, per usare un termine marinaresco) da formare un unicum, proprio come accade nella vita.