Il Festival delle passeggiate e degli incontri che l’Università dal 2006 offre alla città, attraverso le Vie dei Tesori sparsi tra Palermo e provincia, si è chiuso domenica 26 ottobre allo Steri, con una tavola rotonda che invitava a interrogarsi su “il centro storico è vivo o morto?” chiunque si ponga seriamente la questione della “incompiuta centro storico”.
Bisogna dire che la risposta dei cittadini alle ricchissime offerte di luoghi e occasioni di conoscenza di angoli poco noti o solitamente inaccessibili, è stata entusiastica ed entusiasmante per gli organizzatori, uno staff efficiente e dinamico coordinato dalla giornalista Laura Anello con la quale anche Salvare Palermo si è relazionata per le iniziative proposte.
Nel ringraziare quindi l’Università per il coinvolgimento in una così sentita manifestazione, che nei quattro fine settimana di ottobre ha riempito strade, giardini, luoghi e spazi di centinaia di visitatori attenti e curiosi, mi piace sottolineare il contributo che hanno dato le associazioni che durante tutto l’anno appuntano sulle proprie agende di lavoro i tanti problemi irrisolti da affrontare e sottoporre a chi di competenza. Non sempre si trovano le soluzioni, non sempre soprattutto si riscontra la buona volontà di risolvere questioni intricate, ma poiché la “cittadinanza attiva” si è data il compito di smuovere le acque stagnanti delle inerzie burocratico-amministrative, tutte le strade per ottenere lo scopo sono buone. Quindi anche una tavola rotonda come quella di chiusura, volutamente composta da contributi multidisciplinari allo scopo di allargare lo sguardo su una questione che non riguarda solo l’organismo “materiale” della città un tempo murata, le case, i monumenti, le strade, gli spazi, ma i suoi abitanti; non solo quindi il tessuto connettivo fisico ma anche quello sociale, composto dalle “anime” che in senso heideggeriano “abitano” il centro storico contribuendo a renderlo vivo o morto, come da interrogativo di partenza. I contributi degli invitati alla tavola rotonda, benissimo coordinata dalla giornalista Alessandra Turrisi, sono stati molto interessanti proprio per la varietà dei punti di vista da cui la questione si può, e probabilmente si deve affrontare: il filosofo del paesaggio prof. Massimo Venturi Ferriolo del Politecnico di Milano, che ha sottolineato come i guasti della distruzione del tessuto sociale, nelle realtà sottoposte a trasformazioni traumatiche e repentine, siano da riconnettere con più urgenza e sollecitudine di quelli dei vuoti urbani; il professore di Restauro dell’Università di Venezia, Francesco Doglioni, che individua nella voglia di conoscenza dei visitatori la chiave della vitalità del centro storico, le cui modalità di ripristino possono essere molteplici purché se ne salvaguardino autenticità e riconoscibilità delle stratificazioni, dati imprescindibili di una città, Palermo, di cui «il mondo ha bisogno» forse proprio per la sua complessità.
L’assessore al c.s. Emilio Arcuri non ha lasciato molte speranze di interventi a breve scadenza, perdurando la carenza di apposite risorse finanziarie, ma ha invitato a considerare come le modificate situazioni socio-politiche impongano altre e diverse strategie di intervento, nel tessuto materiale e sociale della città storica; il geografo urbano prof. Vincenzo Guarrasi ha definito “morente” il c.s. che ha quindi bisogno di molte e appropriate cure per riprendersi poiché, dovesse malauguratamente morire, ne risentirebbe tutta la città che non può permettersi di perdere la sua “anima”, la parte più sostanziosa del tessuto sociale su cui anzi lavorare per farne la parte più innovativa e “mobilitante” delle migliori competenze e forze produttive e sociali; infine la presidente del Centro di psicoanalisi siciliano, prof. Malde Vigneri, ha visto un c.s. né vivo né morto né morente ma “malato”, preda di una sottile malattia che divora le pietre e le comunità che le abitano, a loro volta disgregate dalla incomunicabilità tra le diverse etnie e culture di provenienza, oltre che dalla illegalità insinuatasi tra le pieghe di povertà e disoccupazione di un tessuto sociale per forza di cose contaminato. Proponendo una sollecitazione, graditissima, a che l’Architettura riprenda a dare senso e significato al suo essere interprete di sentimenti profondi delle comunità, che torni quindi a ricoprire il ruolo ermeneutico del lavoro, di restauro o di ricostruzione poco importa, che sappia tradurre negli interventi i sentimenti della comunità, che ne sappia esprimere aspirazioni e pulsioni positive e benefiche attraverso il linguaggio architettonico. Magari per favorire il ritrovamento di quella medesima “autenticità” cui si è fatto cenno prima.
La vice presidente Renata Prescia ha chiuso i lavori, ringraziando tutti gli intervenuti per la ricchezza degli spunti di riflessione offerti ad una discussione assai proficua ma che non si è certo esaurita qui, e che anzi ci auguriamo venga ripresa e ampliata in un seguito non molto lontano.
Rosanna Pirajno